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Considerazioni a margine di una sbronza

L’idea è vecchia di dieci anni, ma si sta imponendo solo ora; dei micro dispositivi da areosol che vaporizzando una miscela (che può contenere nicotina) regalano un’esperienza paragonabile al fumo senza i relativi danni per la salute, ovvero le cosiddette sigarette elettroniche. Oggi mi è balenata in mente una domanda, che potrà suonare blasfema per qualche professore di italiano, ma che sinceramente giudico interessante al di là dell’effetto comico: ma oggi, con le sigarette elettroniche, Italo Svevo avrebbe scritto “La coscienza di Zeno”? La letteratura, come tutte le grandi imprese, nasce dall’inquietudine, che è innata nella natura umana e che non può essere lenita dalla tecnologia, ma inevitabilmente quest’ultima modifica le forme in cui essa si esprime. Foscolo avrebbe firmato “Gli ultimi tweet di Jacopo Ortis”? Il pescatore Santiago de “Il vecchio e il mare” di Hemingway, e soprattutto Ulisse, avrebbero usato un navigatore satellitare? L’Agostino di Moravia avrebbe liquidato i suoi turbamenti con una nottata su youporn (e tanti fazzoletti)? Madame Bovary si sarebbe accontentata dei fittizi tradimenti racchiusi in una finestra di chatroulette? Chissà se, oggi, il giovane Holden avrebbe chiesto dove vanno d’inverno le anatre di Central Park su Yahoo! Answers, o se Dorian Gray avrebbe ritoccato il suo ritratto con Photoshop. Chissà se Mattia Pascal avrebbe aperto un profilo facebook a nome Adriano Meis e se Amleto avrebbe cercato la risposta al suo dilemma su Google. Chissà se Voltaire sarebbe stato un amministratore di Wikipedia o si sarebbe limitato a creare una voce ogni tanto, e se Lutero avrebbe ottimizzato le novantacinque tesi per la visualizzazione su IPad. Chissà se avrei avuto speranze di entrare nel bloroll di Ennio Flaiano…

Ed ora una conclusione seriosa per far apparire tutto il resto meno cazzaro. La rivoluzione digitale – dalla seconda metà del novecento l’unica rivoluzione capace di stravolgere permanentemente la condizione di ogni classe sociale, più di quella sessuale con le sue sacche di recrudescenza reazionaria, più delle conquiste sindacali e dei lavoratori oggi rimesse in discussione – con le opportunità di accesso globale alla conoscenza, di comunicazione interpersonale, di maggiore dominio sul mondo fisico, spinge l’uomo a trovare il suo antagonista, o alleato, non più nel divino, nella natura o nel fato, ma solo e soltanto in sé stesso.

Il caso Vittorio

Marta e Claudia si conoscono negli scout, sono delle bambine, e sono cattoliche. Passa qualche anno e si scoprono di sinistra; partecipano a una manifestazione contro il primo governo Berlusconi, e vi incontrano Vittorio, quel compagno di scuola indecifrabile. Parlano un po’, passano insieme il resto della mattinata, ridendo e fumando le prime sigarette. Un giorno come tanti, eppure quell’anonimo stralcio di quotidianità determinerà per sempre il corso delle loro vite.

La prospettiva narrativa de Il caso Vittorio è un pendolo che oscilla con precisione matematica dalla soggettiva di Marta a quella di Claudia e viceversa, senza trascurare i passaggi intermedi. È questo l’elemento più impressionante del notevole stile che ha dato forma a questo romanzo del 2003, che la minimum fax ha deciso di riproporre in una nuova edizione nel 2011. Impressionante ed efficace; il lettore attraversa oltre dieci anni di storia recente mano nella mano con le due protagoniste, impara a conoscerle, ad amarne i pregi, a odiarne i difetti, può addirittura immaginarne i cambiamenti fisici anche quando questi non vengono descritti sulla pagina. Attraverso i loro occhi impara a comprendere a fondo anche gli altri personaggi, eccetto uno, Vittorio, l’alieno (come suggerisce la forma della sua testa), un enigma, un vero e proprio caso.

Ciò che mi ha colpito maggiormente dell’umanità ritratta da Francesco Pacifico è la necessità di un codice, di una filosofia, di un’ideologia con cui interpretare e affrontare il mondo. Spesso gli stessi personaggi barcollano intellettualmente passando dal nichilismo all’edonismo, da un paradigma inventato ai tempi del liceo e chiamato “Verità Creativa” all’integralismo cattolico (quest’ultimo oggetto d’interesse anche del più recente romanzo di Francesco Pacifico, Storia della mia purezza, edito da Mondadori), ma non possono esimersi da quello che appare quasi un istinto cognitivo primordiale, la ricerca di un centro di gravità permanente detto con le parole di Franco Battiato. Ma quando i ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne di questo libro, pensano di aver trovato la distanza giusta per mettere a fuoco la propria vita, si accorgono che nel frattempo la stessa si è spostata un po’ più in là.

P.s. mi sono interessato a Il caso Vittorio a causa del suo titolo, curiosamente simile a uno dei primi racconti pubblicati su questo blog, Nel caso di Vittorio (che mi rifiuto di linkare per pudore e rispetto del romanzo recensito). Una coincidenza, e a giudicare dalle impressioni finali sul testo direi una fortunata coincidenza.

Dannazione

Madison Spencer è una ragazzina di tredici anni. Grassottella, insicura e ricca da fare schifo. Ma soprattutto morta, e all’inferno. Questo il punto di partenza dell’ultimo romanzo di Palahnuik. Non è la prima volta che lo scrittore di culto strizza l’occhio al soprannaturale, già lo aveva fatto con “Ninna Nanna” e “Diary” (mentre “Rabbia” è più inquadrabile nel filone fantascientifico, anche se incluso insieme agli altri due titoli in un’unica trilogia), e con qualche accenno in “Cavie”, ma mai la scelta era stata tanto plateale, ma soprattutto tanto grottesca, a partire dalla morte della protagonista; un’overdose di marjuana, ma nessuno muore di marjuana, e infatti c’è dell’altro, perché nulla mai è come sembra nella letteratura di Palahniuk. Considerate le premesse avevo paura che “Dannazione”, dopo il deludente “Senza Veli”, sancisse la (pur fisiologica) parabola discendente di uno degli scrittori più visionari dei nostri tempi, ma così, fortunatamente, non è. Siamo lontani dai fasti di “Soffocare” e “Survivor”, ma la lucida follia dell’ex meccanico di Portland è intatta. Ogni capitolo si apre con un appello di Madison a Satana, e il tenore è a volte quello che si riserva a un direttore d’albergo, a volte a una rockstar. L’immagine dell’inferno non tradisce le aspettative iconografiche più pulp, ma presto si rivela meno invivibile del previsto, fino a giungere alla considerazione che all’inferno, tutto sommato, non si sta poi così male, se non altro, come sosteneva Mark Twain, per la compagnia. I diavoli, per quanto ributtanti, si rivelano dei poveri diavoli, declassati e relegati a mansioni umilianti, dopo essere stati divinità e idoli di religioni dimenticate, che Palahniuk descrive minuziosamente attraverso la lente dell’antropologia culturale a cui mai rinuncia. Ma ovviamente non c’è nulla di esoterico nelle pagine di “Dannazione”, perché il regno in cui avviene il racconto altro non è che un’allegoria; il vero inferno di Madison è l’adolescenza, e “Dannazione” è il primo romanzo di formazione di Chuck Palahniuk, un romanzo di formazione allucinato e perverso, il Breakfast Club dei morti.

“Dannazione” può anche lasciare perplessi, forse addirittura deludere qualche fightclubbista, personalmente ho trovato più interessanti le pagine terrene, e considerata la natura del testo potrebbe intendersi come un parziale fallimento, ma una cosa è innegabile; ci sono pochi scrittori in giro disposti a reinventarsi ad ogni romanzo (e di conseguenza a rischiare editorialmente, come nel caso del controverso “Pigmeo”), per offrire ai propri lettori una merce sempre più rara: l’imprevedibilità.

Testamento semiotico, Chuck Palahniuk e Avatar

Mi appresto a leggere “Pigmeo” di Chuck Palahniuk, e alla fine potrei non essere più lo stesso. La mia grammatica è stata sempre gracilina; a otto anni ho fatto una cura ricostituente per le doppie, a dieci mi hanno impiantato una protesi per gli accenti, a dodici ho avuto un attacco di panico davanti a una consecutio temporum, e ancora oggi i congiuntivi mi provocano le vertigini. Ecco, considerate questo e considerate uno scrittore che come uno sciamano occidentale ha la capacità di catapultarmi nel suo delirio (Niccolò Ammaniti scrisse di Palahniuk: “…è peggio di un polpo. Ti afferra con i suoi tentacoli e ti trascina in un buco pauroso. Lasciatelo stare se avete lo stomaco debole”), ma considerate soprattutto 238 pagine scritte tutte così: “Uomo di passaporti, ufficiale solo dietro vetro proiettile, apre e legge libro passaporto di operativo me, confronta dato cartaceo di visto; uomo guarda questo agente da alto, dice: «Hai fatto un bel po’ di strada figliolo». Ufficiale di passaporti è vetusto animale recintato, futuro morente con troppo di sangue denso raccolto dentro vene di gambe. Intero giorno dentro trappola, possibile che prossimo viaggio a gabinetto, pum-pum, grumo spacca cervello”. E’ decisamente troppo per il mio precario equilibrio logico-linguistico, lo so già che non sopravviverà; voi vi chiederete perché lo faccio, ma non sono qui per spiegare questo, bensì per le mie ultime volontà semiotiche, qualora tra breve io non sia più in grado di formulare frase di senso compiuto. Ai miei familiari lascio le parole cortesi, agli sconosciuti le formule della buona educazione, agli amici le parole inventate, ai colleghi le parole in inglese (non sapevo a chi altro darle). Lascio le parole “caldo”, “cibo” e “casa” agli homeless, lascio gli avverbi a quelli di poche parole, i condizionali ai troppo sicuri di sé. Lascio i “Vaffanculo” al governo, e i “porca puttana” all’opposizione. In fede, Barabba Marlin.

Passiamo ad altro: il film “Avatar” è una bambola gonfiabile. Fine recensione. Approfitto dello spazio guadagnato per una riflessione sul 3d. C’è una bella storiella che si racconta ai corsi universitari di cinema: la cameriera di un noto scrittore russo (non ricordo quale) andò a vedere per la prima volta una pellicola al cinematografo, benché fosse una donna istruita e intelligente, tornò a casa dello scrittore letteralmente sconvolta e disgustata, per la quantità di teste mozzate che aveva visto. La cameriera non conosceva ancora il concetto di primo piano. Pensavo che il 3d fosse un effetto speciale fine a sé stesso, da usare con cautela per non generare tolleranza, invece è una cassetta degli attrezzi nuova per la composizione dell’inquadratura. E’ una piccola rivoluzione (già abbozzata molti anni fa, ma resa abbordabile oggi dal digitale), non paragonabile all’introduzione del sonoro o del colore, ma piuttosto all’invenzione del Dolby Sorround.  Attendo con ansia un film in 3d d’autore, non necessariamente di fantascienza; l’incontro di Micheal Gondry (“Eternal sunshine of the spotless mind”, “L’arte del Sogno“) con questa tecnica, sarebbe come quello tra la nitrocellulosa e la gricerina. E allora rideremmo di noi, come di quella povera cameriera, pensando a come ci aveva impressionato Avatar.

L’amore a Londra e in altri luoghi

Ho conosciuto Flavio Soriga grazie a una bella e divertente ospitata a le Invasioni Barbariche (di cui purtroppo non ho trovato traccia nel web). Doveva essere aprile o fine marzo dello scorso anno. Non ho una grande memoria temporale, ma una data me la ricordo bene; era il 14 aprile 2008, ero in treno, Taranto-Roma, ascoltavo la radio e apprendevo che l’Italia c’era ricascata, Berlusconi aveva vinto di nuovo le elezioni. Mi tormentavo sul sedile, toglievo e rimettevo gli auricolari nelle orecchie, facendole diventare rosse, le sentivo in fiamme, probabilmente lo ero anche in faccia, rosso, come non lo sarebbe stato più nessuno scranno del Parlamento. Davanti a me un ragazzo leggeva “Sardinia Blues”, il romanzo di quello scrittore che avevo visto su La7 qualche giorno prima. Leggeva e sorrideva, sembrava godersela, la sua lettura. Li odiai entrambi; Soriga e quel ragazzo, autore e lettore. Poi però mi è passata e ho letto “L’amore a Londra e in altri luoghi” (che mi è finito nelle mani in maniera alquanto insolita), edito da Bompiani,15€ in libreria, 12 se lo ordinate su IBS.

“L’amore a Londra e in altri luoghi” è una raccolta di otto racconti, storie di sentimenti contrastanti, fra terre di origine e città d’adozione, tra genitori persi per sempre o solo per un attimo, tra amanti e “congiacenti”. Nel primo e più lungo fra i racconti, “Aprile” (ambientato in Sicilia, anche se non viene mai specificato, tutto lo fa credere), il protagonista accompagna il lettore da un’infanzia anagrafica e geografica (“noi eravamo un isolotto di un’isola più grande”) alla maturità, con tutte le conquiste e le perdite che ciò comporta. Senz’altro è il racconto con “più roba”, malinconico e nostalgico. Andando avanti nella lettura arrivano, però, anche momenti ironici, come lo strambo matrimonio in stile simil-buddista nella campagna toscana raccontato nel “Congiacente”, mentre in “El Presidente” (storia d’amore tra un dittatore sudamericano e un’attricetta italiana), abbondano le allusioni alla tragicommedia della democrazia nel nostro Paese. L’ultima storia invece, “Candele” è un breve e delicato racconto dalle atmosfere benniane. A trequarti della lettura pensavo che ogni racconto avesse un’anima gemella, con un personaggio comune che unisse invisibilmente le storie a due a due, ma poi non sono riuscito a completare il gioco delle coppie.

Io ho un’intolleranza verso determinate parole, soprattutto nei titoli. Nello specifico la parola amore mi provoca noia e dermatite. Ma fortunatamente il mostro semantico citato nel titolo del libro non ha nulla a che vedere con i Baci Perugina. Soriga non coglie fiori di campo ai bordi dei sentieri di montagna, lui ci si infila dentro, alla montagna, nel suo ventre. Non cerca facile e inutile romanticismo, quello che interessa allo scrittore sardo è il dolore che come un fiume carsico scava la terra sotto i piedi. A livello formale c’è qualcosa, però, che nello stile di Soriga non mi convince, qualcosa che probabilmente dipende dai modelli letterari; puri quelli dell’autore, bastardi i miei. Ma gli riconosco una grande dote: il senso del finale. La supremazia dell’incipit è un mito che hanno creato quelli che i libri li vendono, ma non li scrivono. Un autore vero sa che il finale è la cosa più importante, è la porta della gabbia, che il lettore può aprire per farsi divorare dalla bestia che vive nella storia.