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UNA PROPOSTA MOLESTA / I REBOOT

Ve lo ricordate “Will il principe di Bel-Air”?

Ebbene ne hanno fatto un rifacimento, ma attenzione… è diventata una serie drammatica/action/crime (qui il trailer).

Qualora la cosa divenisse di moda, suggerisco alcuni reboot nostrani:

-“Casa Vianello”: una ricca e anziana coppia vive la propria esistenza ricco borghese. Lei, una donna sadica e perversa, è parecchio stufa della routine matrimoniale, così escogita dei modi sempre diversi per attirare delle giovani donne in casa per torturarle fino alla morte. Lui tenta in tutti i modi di salvarle, cercando di sedurre le donne e portarle fuori da casa, ma fallisce ogni volta miseramente. La sera, quando la sete di sangue di lei sembrerebbe essersi placata, l’anziana assassina sotto le lenzuola comincia a scalciare: è l’astinenza dal sangue, e il giorno dopo una nuova giovane vita sarà spezzata.

-“Un medico in famiglia”: Roma, anni 60. Nonno Libero, dopo una vita di lavoro e dopo aver combattuto i tedeschi come partigiano, si gode la pensione e i suoi nipotini, la prole del suo unico figlio, un brillante medico rimasto vedovo. Ma un giorno Libero scopre qualcosa che mai e poi mai avrebbe potuto immaginare: quando Libero si unì alla Resistenza, suo figlio era un brillante studente di medicina, finita la guerra Libero tornò a Roma ma non trovò il figlio, tempo dopo gli spigherà che era scappato per paura dei bombardamenti. Ma Libero scopre che in realtà suo figlio era diventato l’assistente del Dottor Josef Menghele, l’angelo della morte di Auschwitz. Cosa farà Libero? Cederà alla rabbia e al senso di giustizia, lasciando gli amati nipoti orfani anche del padre? Oppure farà finta di niente sapendo di aver egli stesso generato il Male contro cui ha combattuto per tutta la vita?

-“I Cesaroni”: nel cuore del quartiere Garbatella c’è la casa della famiglia Cesaroni, una casa frequentata da un gran numero di personaggi sempre di ottimo umore, questo perché i Cesaroni spacciano.

Sedici anni fa – reprise

Quest’anno l’orrore che ha solcato la terra di Kigali diventerebbe maggiorenne; ai miei connazionali che maggiorenni non lo sono ancora, e a quelli che lo sono da un pezzo, dico che abbiamo un dovere, quello di sapere e ricordare storie come questa, può sembrare poco, e probabilmente lo è, non diventeremo certo eroi per questo, ma ignorare e dimenticare, invece, ci rende disumani, oltre che pericolosamente vulnerabili. 

Oggi mi è capitato di vedere su Rai News 24, un toccante documentario sul genocidio del Ruanda; per chi ha voluto dimenticare, o per chi non poteva ricordare perché troppo piccolo, correva l’anno del Signore 1994, ma probabilmente quell’anno il Signore si era messo in aspettativa, perché quello che è successo sedici anni fa in quel piccolo staterello dell’Africa Orientale, sembra progettato dall’anticristo in persona: un esercito, non di soldati, ma che sarebbe paradossale definire di civili, scese in strada con machete e mazze chiodate, con le radioline sintonizzate sull’unica stazione rimasta, quella governativa, che incitava a “lavorare”, a eliminare gli scarafaggi, ovvero i Tutsi (ma anche gli Hutu che si ribellavano al massacro). Essere nati Tutsi significava attendere il proprio massacro, magari ad opera del vicino di casa, quello che fino a qualche mese prima avresti potuto definire addirittura tuo amico. L’alternativa era scappare, magari in Burundi, correre per dodici ore senza guardare indietro, e verso una salvezza che era solo un’ipotesi di speranza. Ma chi erano, e chi sono, i Tutsi e gli Hutu? Sono due gruppi etnici, che si sono scoperti diversi solo con la colonizzazione europea (che nell’area identificarono anche un terzo gruppo, i Twa, i pigmei), prima tedesca e poi belga, generalmente si identificano i Tutsi con i cosiddetti Watussi, ma le differenze fisiche e somatiche con gli Hutu vennero forzate dagli scienziati e dagli antropologi dell’epoca, del resto le unioni e i matrimoni misti nell’area erano la regola. Gli europei preferirono i Tutsi, che erano minoranza, in parte perché riconosciuti fisicamente più prossimi alla razza caucasica, in parte perché più ricchi e colti (tradizionalmente erano allevatori, e gli Hutu agricoltori). Finita la colonizzazione cominciarono le tensioni, che sfociarono prima nella guerra civile (1990-1993), e poi nel genocidio; “motivi etnici”, la sentenza è fin troppo semplice, “scontri tribali”. Ma non è così; l’unico inviato italiano durante il genocidio, Federico Marchini (cliccate per vedere un’intervista sull’argomento) descrive che quello che spingeva uno ad ammazzare il proprio vicino di casa, non era l’odio razziale, ma la minaccia, da parte delle milizie e dei gruppi che miravano al potere, che in caso si fosse rifiutato a morire sarebbero stati lui e i suoi parenti. Avevo quattordici anni quando cominciò il genocidio ruandese, ora ne ho trenta e quell’inferno si è solo arrampicato sullo stesso meridiano fermandosi dalle parti del Darfur. Ok, ma a cosa serve rivangare il passato? noi cosa ci possiamo fare? E’ una frase che almeno una volta nella vita ci siamo fatti. Ovviamente io non so cosa possiamo fare, ma ho qualche idea su cosa non dobbiamo fare; ad esempio dimenticare. I superstiti del genocidio che raccontano in giro per il mondo quello che hanno visto, rischiano la vita ogni giorno, come racconta la scrittrice Yolande Mukagasana, e se c’è qualcuno disposto a uccidere qualcun altro per un ricordo, ma soprattutto se c’è qualcuno disposto a morire per raccontarlo, un motivo ci sarà.

La logica che mi sfugge

La notizia è stata riportata da “Il Fatto Quotidiano”; i giornalisti di Radio Rai sarebbero stati intimati, per mezzo di una lettera firmata dall’assistente del direttore di Radio Rai 1 e dei radiogiornali, a non pronunciare le parole preservativo e profilattico, per giunta nella giornata mondiale contro l’Aids, ma di limitarsi a dei generici riferimenti alla prevenzione. Alcuni giornalisti si sono rifiutati di sottostare all’indegno e insensato diktat e hanno reso pubblica la cosa attraverso i loro sindacalisti. Non si conosce il motivo dell’imposizione, ma è difficile pensare che non vi sia una matrice ultra-cattolica dietro. Premesso che ritengo la maggior parte dei cattolici praticanti più aperti e intelligenti dei loro massimi esponenti (e verrebbe da pensare che è un segno dei nostri tempi, come la classe diretta sia spesso migliore della classe dirigente), decido di fare quattro passi virtuali tra i forum e i siti degli integralisti cattolici cercando considerazioni sul tema del preservativo. Che ritengano l’anticoncezionale immorale non mi ha stupito, ma mi si è lussata la mascella leggendo più volte una conclusione di cui mi sfugge la logica: il preservativo incentiva la fornicazione. Il preservativo incentiva la fornicazione. Il preservativo incentiva la fornicazione. Come dire che il consumismo è causato dalla disponibilità di buste per la spesa. C’è qualcuno poi che sostiene (qui) che tale dogma è da ritenersi valido solo in occidente, molto probabilmente perché sa che vietare il preservativo in Africa significa condannare milioni di persone a una malattia atroce, non proprio una cosa cristiana.

Sul tema Vaticano e sessualità rimando anche a questo vecchio post.

Sedici anni fa

Oggi mi è capitato di vedere su Rai News 24, un toccante documentario sul genocidio del Ruanda; per chi ha voluto dimenticare, o per chi non poteva ricordare perché troppo piccolo, correva l’anno del Signore 1994, ma probabilmente quell’anno il Signore si era messo in aspettativa, perché quello che è successo sedici anni fa in quel piccolo staterello dell’Africa Orientale, sembra progettato dall’anticristo in persona: un esercito, non di soldati, ma che sarebbe paradossale definire di civili, scese in strada con machete e mazze chiodate, con le radioline sintonizzate sull’unica stazione rimasta, quella governativa, che incitava a “lavorare”, a eliminare gli scarafaggi, ovvero i Tutsi (ma anche gli Hutu che si ribellavano al massacro). Essere nati Tutsi significava attendere il proprio massacro, magari ad opera del vicino di casa, quello che fino a qualche mese prima avresti potuto definire addirittura tuo amico. L’alternativa era scappare, magari in Burundi, correre per dodici ore senza guardare indietro, e verso una salvezza che era solo un’ipotesi di speranza. Ma chi erano, e chi sono, i Tutsi e gli Hutu? Sono due gruppi etnici, che si sono scoperti diversi solo con la colonizzazione europea (che nell’area identificarono anche un terzo gruppo, i Twa, i pigmei), prima tedesca e poi belga, generalmente si identificano i Tutsi con i cosiddetti Watussi, ma le differenze fisiche e somatiche con gli Hutu vennero forzate dagli scienziati e dagli antropologi dell’epoca, del resto le unioni e i matrimoni misti nell’area erano la regola. Gli europei preferirono i Tutsi, che erano minoranza, in parte perché riconosciuti fisicamente più prossimi alla razza caucasica, in parte perché più ricchi e colti (tradizionalmente erano allevatori, e gli Hutu agricoltori). Finita la colonizzazione cominciarono le tensioni, che sfociarono prima nella guerra civile (1990-1993), e poi nel genocidio; “motivi etnici”, la sentenza è fin troppo semplice, “scontri tribali”. Ma non è così; l’unico inviato italiano durante il genocidio, Federico Marchini (cliccate per vedere un’intervista sull’argomento rilasciata per il sito di Beppe Grillo) descrive che quello che spingeva uno ad ammazzare il proprio vicino di casa, non era l’odio razziale, ma la minaccia, da parte delle milizie e dei gruppi che miravano al potere, che in caso si fosse rifiutato a morire sarebbero stati lui e i suoi parenti. Avevo quattordici anni quando cominciò il genocidio ruandese, ora ne ho trenta e quell’inferno si è solo arrampicato sullo stesso meridiano fermandosi dalle parti del Darfur. Ok, ma a cosa serve rivangare il passato? noi cosa ci possiamo fare? E’ una frase che almeno una volta nella vita ci siamo fatti. Ovviamente io non so cosa possiamo fare, ma ho qualche idea su cosa non dobbiamo fare; ad esempio dimenticare. I superstiti del genocidio che raccontano in giro per il mondo quello che hanno visto, rischiano la vita ogni giorno, come racconta la scrittrice Yolande Mukagasana, e se c’è qualcuno disposto a uccidere qualcun altro per un ricordo, ma soprattutto se c’è qualcuno disposto a morire per raccontarlo, un motivo ci sarà.