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il mattone nel parcheggio dell’autogrill

E con quello di Renzi salgono a 3 i partiti che riportano il toponimo “Italia” nel nome.

Un tempo il nome di un partito ricordava l’ideologia di riferimento (liberale, socialista, comunista, repubblicano, monarchico, cristiano…), va be’, dici le ideologie sono morte, ma neanche la fantasia si sente tanto bene però. Eh sì che in politica ci sono molti più esperti di comunicazione rispetto a un tempo, si fanno ricerche, analisi, focus group, quindi ne deduco che i miei connazionali proprio desiderano che gli venga ricordato in che Stato abitano, hai visto mai si confondano con il Canada, La Norvegia, la Nuova Zelanda… ed effettivamente da quando Di Maio ha abolito la povertà il dubbio viene; confondere Tor Bella Monaca con Zurigo è un attimo eh.

Tutti a dirci che il genio italico è svanito, sfumato, dissolto nel vento, il Made in Italy depredato, svenduto, mortificato; eppure abbiamo sotto gli occhi una delle più brillanti trovate imprenditoriali degli ultimi decenni: l’Italia, cioè l’Italia proprio come brand. Il nome di un paese che non vale niente, sommerso dai debiti e dalla monnezza, avvelenato nel corpo e nell’anima, eppure… eppure c’è mezza nazione che pensa che dei disperati di un altro continente mollino gli affetti, affrontino un viaggio disperato, spesso mortale, per cosa? Per venire in Italia… ma quelli non sanno nemmeno dov’è l’italia, che forma ha, se è su un’isola o su una montagna, avranno sentito il nome, quello sì, perché… perché il cibo, mizzica, la storia, li mortacci, l’arte, maremma maiala, la moda, cazzofiga.

Per crederci meglio ce lo siamo raccontati tra di noi, ci siamo venduti a vicenda il mattone nel parcheggio dell’autogrill. Ci abbiamo perfino chiamato tre partiti politici.

Alessandro Manzoni avrà anche regalato la lingua all’Italia, ma è Piero che gli ha insegnato a vendersi, e a campare.

Sesso, bugie e videogame

Una volta da ragazzo, avrò avuto diciotto o diciannove anni, ero in auto con un’amica, aspettavamo un’altra persona che non sarebbe arrivata prima di una ventina di minuti, eravamo lì rilassati a chiacchierare tranquillamente, poi lei, con una naturalezza con la quale qualcun altro avrebbe sfilato una sigaretta dal pacchetto senza smettere di parlare, mi abbassò i pantaloni della tuta, accertatasi che non vi fosse opposizione da parte mia, mi abbassò anche le mutande, osservò il mio pene che nel frattempo cambiava velocemente forma e dimensione, farfugliò qualcosa (la ragazza, non il pene) e poi cominciò una fellatio. Ok mi dissi, deve essere un sogno, è chiaramente un sogno, ma finché dura perché non divertirsi? Le accarezzai la testa, il collo e poi le spalle, di cui non me ne fregava assolutamente nulla, e infine giunsi al seno, che era il mio vero obbiettivo, infilai la mano sotto la maglietta e scostai il reggiseno, poi afferrai il seno più sodo che la mia mano abbia mai toccato, strinsi leggermente il capezzolo tra indice e medio, e lei mi fece capire di approvare con dei mugolii soddisfatti. Rinfrancato lanciai la mano in una nuova impresa; sfiorai appena la sua vulva, sottolineo, sfiorai appena, da sopra i pantaloni. Lei smise di suggere il mio glande, mi fissò con sguardo severo e mi disse “Non pensi che ora stai esagerando?”. E tutto finì lì. Fu così che a diciotto o diciannove anni appresi il concetto di relativismo, ma soprattutto l’esperienza minò per sempre il mio rapporto con i preliminari. Mentre faccio petting con una donna ho l’inconscia paura, se non il terrore, che per colpa di un movimento, magari involontario, delle mie mani o di altre parti del mio corpo, improvvisamente scatti un allarme, nella mia stanza da letto entri una corte d’assise e un pubblico ministero mi additi come mostro criminale. I preliminari sono per me un’attività tanto stressante che talvolta ho la voglia di dire alla tipa “senti tesoro sono stremato, ci vediamo domani e ricominciamo da questo punto? Ci vediamo domani qui alla stessa ora già pomiciati, ok? Anzi sai cosa faccio? Ora salvo… salvo… dov’è che si salva in questa stanza? Cazzo… questa è la vita vera non il computer…”. Mi diverte molto come la rivoluzione digitale ha cambiato la mia visione della vita e della mente, e suppongo anche quella degli altri. Oltre alla castrante sensazione di accorgersi che nella vita vera la magica combinazione Ctrl+Z non funziona, che i checkpoint esistenziali sono meno affidabili di quelli di uno sparatutto per Playstation, spesso mi ritrovo a pensare alla mia memoria come se fosse un hard disk: devo imparare un sacco di roba per lavoro, come faccio? Non mi entrerà mai in testa, devo cancellare qualche ricordo per fare spazio, vediamo un po’: la rivoluzione francese studiata a scuola? Forse, altrimenti quel ricordo della gita in montagna fatta coi miei genitori da bambino, tanto non lo guardo mai… oppure potrei disinstallare il programma che mi permette di giocare a ping pong, tanto non ci giocherò più, nessuno gioca più a ping pong, a meno che non sia la versione sulla Wii… forse per rendere meno traumatico il passaggio dal mondo virtuale al mondo reale bisognerebbe obbligare i programmatori ad adottare una variabile nuova, la variabile “i”, “i” come infame: per esempio stai cercando qualcosa su Google, e l’oracolo di Mountain View invece di rendere i risultati visualizza una pagina con scritto “No” a tutto schermo, perché? Domanderai tu scrivendolo nell’apposita barra delle ricerche, e lui “perché la vita è una merda”, oppure “poi ti vizi”, “sono uno stronzo”, “fai più male a me che a te”, e via dicendo. Ora veniamo al terzo elemento del titolo: ci sono almeno due bugie nel post che ho appena scritto, se vi dicessi quali sono direi la verità e quindi cadrei in contraddizione, o forse sto solo applicando la variabile i.

Lettera aperta alla HBO

Cara Home Box Office, i vostri prodotti audiovisivi incontrano piacevolmente i miei gusti, ma diciamocelo chiaramente; non tutte quello che producete è all’altezza del vostro potenziale. Questa non è una lettera di reclamo, è una proposta per migliorare il vostro lavoro; di seguito ci sono un po’ di idee del cazzo che potete liberamente usare, in maniera tale da impegnare le vostre menti migliori sui progetti di punta:

Genere sit-com per adulti (questa sarebbe fica girarla in Italia, in Brianza, o nel Nord-Est, in quest’ultimo caso si potrebbe citare il capolavoro “Signore e Signori” di Pietro Germi, ma voi che cazzo ne sapete…): Una tipa è a capo di una fabbrica di profilati plastici in una piccola comunità ricca e provinciale. La fabbrica va male e il marito della tipa è scappato all’improvviso, probabilmente a Cuba, lasciandola da sola con i debiti e due figli maschi. Quando sta per scrivere un comunicato aziendale sul pc di casa, per informare i dipendenti dell’inevitabile chiusura, si imbatte nel materiale porno che il figlio più grande ha visionato su quel pc. Arrossisce, anche se è da sola, e comincia a cancellare le pagine dalla cronologia del browser, ma mentre lo fa la sua vista viene attratta da alcuni oggetti, oggetti colorati che bellissime ragazze si passano sorridenti. L’illuminazione: la sua fabbrica produrrà sex toys. La riconversione andrà alla grande, ma la tipa dovrà fare quotidianamente i conti con l’ipocrisia, il moralismo, ma anche l’avidità della sua comunità.

Genere noir stupefacente (filone che nascerà dopo Breaking Bad, fidatevi): C’è un tizio sui trentanni, un biochimico, uno che nonostante l’età adulta e i titoli accademici viene frequentemente appellato come “ragazzo”, uno perbene, uno che ha sboccato il sangue sui libri tutta la vita, impacciato con le donne, simpatico a tutti, anche se nessuno lo conosce davvero. Svolge un’attività di ricerca su una pianta misteriosa, la salvia divinorum, pianta resa recentemente illegale in molti Stati per via delle sue proprietà stupefacenti, e proprio sul suo principio psicoattivo, il salvinorin-A, il tizio incentra la sua ricerca. Poi un giorno gli comunicano che il dipartimento per cui lavora non ha più i fondi per finanziare il progetto. Il tizio rimane senza lavoro, e in città avvengono dei misteriosi casi di delirio, un delirio molto simile a quello indotto dal salvinorin-A, gli episodi diventano sempre più frequenti e le autorità aprono le indagini; inizialmente si indaga sul tizio, ma egli riesce a dimostrare la sua innocenza, allora viene assunto come consulente, in quanto nessuno conosce meglio di lui gli effetti della pianta. La pista del folle trova riscontro, l’avvelenatore seriale comincia a rivendicare i suoi “scherzi”, firmandosi come “l’untore”; l’avvelenamento di un acquedotto, la nebulizzazione dell’allucinogeno nell’impianto di areazione di un centro commerciale, la contaminazione di derrate alimentari, ha anche individuato una molecola che in sinergia col Salvinorin-A ne allunga gli effetti nel tempo. Le conseguenze degli scherzi sono spesso drammatiche, con incidenti mortali e traumi irreversibili, ma si registrano anche casi più difficilmente classificabili, come persone che cambiano stile di vita e che si riferiscono all’attentato parlando di rivelazione. Si sviluppa anche una sorta di strano turismo in città, con gente che vi si reca sperando di capitare nei piani dell’untore. Alla fine il tizio giungerà all’identità dell’untore, che altri non è che il suo alter ego schizoide, slatentizzato dall’assunzione involontaria e duratura di piccolissime quantità di salvinorin.

Idee sparse per serial killer che tornano sempre utili: un testimone di geova che di notte ammazza chi la domenica mattina al citofono lo manda a fanculo. Un autore televisivo frustrato che rapisce i dirigenti di rete, gli legge tutto Pasolini e poi li accoltella. Poi, serial killer degli autisti di autobus che arrivano in ritardo, di blogger che copiano i post altrui senza citare la fonte, di quelli che dicono “apericena”.

Considerazioni a margine di un’affermazione di Marco Giusti su cinema horror, politica e calcio

Quello di seguito è un post semi-serio, non se la prendano gli eventuali lettori che, loro malgrado, sono affetti dalla malattia accennata nel finale.

“il vampiro è borghese e pariolino, lo zombi è proletario e romanista” citazione di Marco Giusti da una puntata di Stracult.

Al di là (in questo caso ci stava anche scriverlo senza spazi) della tassonomia immaginifica della singola creatura, è innegabile che dietro la cinematografia dei morti viventi vi sia una sensibilità marxista o da essa derivata, perché incentrata su una particolare lotta di classe (viventi vs non-morti);  il topos cinematograficamente inventato da Romero e ripreso dalla tradizione voodoo, è spesso usato come metafora della società consumistica, e nello specifico dell’atteggiamento dei consumatori. Probabilmente nel background di genere oltre a Marx trova un posto anche Marcuse. La letteratura vampiresca è senz’altro più individualistica, è difficile non pensare al super-uomo di Nitzsche, ma non trovo sia di per sé politicamente caratterizzata; può essere di destra o di sinistra, a seconda, ad esempio, che il vampiro sia eroe o anti-eroe, di certo non sbaglia il Giusti a definirlo borghese, almeno nella sua accezione classica (accezione di vampiro intendo, non di borghese), infatti il vampiro è spesso ricco, ma il suo benessere fisico implica un rapporto parassitario sul resto della società, i vampiri sono coloro che vivono di rendita finanziaria, a scapito di chi vive di reddito da lavoro, e i secondi accusano metaforicamente i primi (a ragione) di succhiargli il sangue. Tramontato da tempo il topos di Frankenstein; la chimica del romanzo di Mary Shelley consta nella reazione fra ardore scientifico e paura verso la manipolazione scientifica della vita, tema attualissimo alla luce della bioingegneria e delle frizioni morali ad essa legate, eppure il mito di Frankentein è stato divorato anzitempo, probabilmente a causa del talento comico di Mel Brooks che ha partorito la nota parodia dopo la quale nessuno ha avuto più il coraggio di sfruttare il romanzo, e il relativo immaginario, non in chiave comica (fa eccezione il solo “Frankenstein di Mary Shelley” di  Kenneth Branagh, che tuttavia già nel titolo ricorda l’autrice originale, forse per far recapitare a lei eventuali perplessità sul soggetto), quindi il chiedersi da che parte si porrebbe politicamente oggi il genere frankensteniano è argomento più da cultori del modernariato letterario che da amanti della settima arte, è innegabile però che le tensioni del romanzo di Shelley rivivano oggi in un filone nato da una costola del cinema zombi, ovvero quello dei contagiati, non contagiati da un vagente già presente in natura, ma da un germe, da un virus o da una tossina creati dall’uomo, alla “28 giorni dopo” di Danny Boyle per capirci. Per finire e tornando alla frase di Marco Giusti, non saprei connotare calcisticamente i generi finora descritti, non me la sentirei di associare il romanismo al genere zombi, ma una cosa la posso affermare tranquillamente: Lazio merda!

Le cronache della vodka (distribuito anche come “ubriaco erotico stomp”)

Ieri sera, con sulle spalle una semi-deprivazione del sonno dovuta a impegni para-lavorativi, ho avuto un vivido flusso di coscienza; se fossi vissuto a San Francisco negli anni 70 probabilmente sarei stato coadiuvato da una goccia sublinguale dell’elisir del dottor Hoffman, ma vivendo in un quartiere residenziale di Roma nel 2013 mi son dovuto accontentare di una vodka da hard discount. A beneficio degli psiconauti eventualmente approdati su queste pagine senza sapere come, in quanto obnubilati dalla psilocibina (a voi va tutta la mia più biliosa invidia), riporto un report sintetico:

Dopo 6 cl (due shot): al termine di una serie di considerazioni sul problem-solving pervengo alla conclusione che l’idea che per prima balena in una mente umana davanti a una situazione problematica è sempre quella ascrivibile come la più idiota in assoluto, ma non è affatto detto che sia quella sbagliata. Nota a margine: rivalutare la comicità demenziale come neorealismo psichico.

Dopo 9 cl: mi viene in mente il nome di Valerio Millefoglie, scrittore e cantautore, qui un suo strampalato e struggente pezzo. Non mi è chiaro il processo mentale che me lo ha fatto ricordare; non pervenendo a risultati apprezzabili procrastino la riflessione attendendo stati di coscienza più elastici.

Dopo 12 cl: rifletto sul fatto che per valutare quanto un elemento del reale, ma pure dell’irreale, sia importante in un gruppo sociale, bisogna valutarne la varietà semantica nella relativa lingua/dialetto/slang. Un esempio: i quindici modi di dire “neve” degli inuit, o gli svariati termini relativi all’eiaculazione nel porno. Ok, mi sa che non è un concetto tanto originale e no, non ho bisogno di controllare su tubegalore (quest’ultima subordinata è un’imposizione del superego finita nel periodo per inerzia cognitiva)

A tipo 18 cl suona il citofono un amico. Mi ha portato in dono una resina avente alcoloidi con proprietà antidolorifiche, euforizzanti, antinausea, antiemetiche, anticinetosiche, stimolanti l’appetito, che abbassano la pressione endooculare, e che in certi soggetti possono abbassare l’aggressività: come si legge su Wikipedia. Insomma du canne. Dunque; i discorsi e i fiumi sinaptici di questo periodo rimangono chiusi, nella loro estrinsecabilità, in una traccia incognita che ha per parentesi i suddetti manufatti che nella vecchia Inghilterra verrebbero definiti “spleef”, nella romantica Île-de-France “joint” e infine nell’affascinante Berlino “stichling”; come si legge su Google interrogandolo un po’ alla cazzo di cane, ma comunque pe’ capisse le du canne de prima. Ricordo solo che siamo partiti a parlare della Serracchiani e siamo finiti a discernere di categorie del porno (aridaje). Ve lo giuro: in mezzo c’era tanta altra roba… non che la governatrice del Friuli non mi faccia sangue… ma questa è un’altra storia e soprattutto peccherei in metodologia, oltre che di garbo verso la diretta interessata, se non dicessi che i due capolinea avevano in mezzo un botto di fermate. Poi ricordo una personale tangente sulla definizione di Gonzo, con immancabile riferimento a Hunter Stockton Thompson e successiva associazione con il dogma 95 di Lars Von Trier. Nota a margine: il gonzo journalism mi fa venire in mente qualcosa… qualcosa che ha a che vedere con questo preciso momento…

Dopo 21 cl e ritornato in navigazione solitaria: mi viene in mente che l’ultimo argomento trattato nella fase precedente è stato Breaking Bad: mi capita sempre più spesso di tessere gli elogi di questo telefilm statunitense. O meglio mi capita quando sono più disinibito; devo avere qualche forma di pregiudizio da decrepito cinefilo che mi fa subliminalmente vergognare nel parlare bene di qualcosa che non nasce per quel tempio in rovina che è la sala, comunque lo sottoscrivo qui: Breaking Bad ha una rara raffinatezza nella scrittura, nonché un intricato cosmo simbolico che non escludo possa essere in realtà una mia personale sega mentale.

Dopo 24 cl e un richiamo di quella cosa lì sopra tradotta in tante lingue: Ah cazzo! Ecco perché forse mi era venuto in mente Millefoglie! Ho voglia di un dolce: ce l’ho da stamattina! Nel freezer ho una vaschetta di Algida Cucciolone, no, non un cartone di Cuccioloni, proprio una vaschetta con i gusti del cucciolone e il biscotto sbriciolato dentro. Lo so lo so, è una zozzata, e chi mi conosce sa che in poche cose sono un fondamentalista duro e puro come nel gelato artigianale. Però l’altro giorno, al supermercato, sono rimasto affascinato dalla deriva futurista del gelato in vaschetta. Da bambino pensavo che l’estro nell’arte gelatiera si sarebbe spinto verso presuntuosi orizzonti, gli stessi dell’alta profumeria, inventando gusti come “amore”, “libertà” o un wertmulleriano “sensazioni di una notte d’estate ai tropici”, questa strada è stata calcata dal gelato industriale per eccellenza, il cornetto o il magnum per capirci, ma non dalla terra di mezzo del gelato in vaschetta, che invece ora si reinventa pop-art: la vaschetta al gusto solero non-so-cosa è l’equivalente, nel banco frigo, di un poster della zuppa Campbell’s di Wahrol.

Altro richiamo di quella cosa sopra in cui dicevo che stava sopra: In metropolitana chi chiede l’elemosina mi evita sempre; riflettere sul perché. Tenere a mente per il titolo di un racconto: “Non nominare il nome di Dio, Ivano!”. Jannacci mi piaceva tanto, per davvero… Spesso, quando si dice a una persona che è bella, le si fanno i complimenti: perché? che senso ha? io faccio i complimenti a qualcuno per un lavoro ben fatto, per un pensiero intelligente, per un gesto coraggioso, non perché, che ne so, è nata in un posto chic come Tokyo o New York, non faccio i complimenti a uno perché è ricco di famiglia o perché ha un nome fico, i complimenti si dovrebbero fare per quello che uno fa, e non per quello che uno è indipendentemente dalla sua volontà. Accidenti eccola, doveva arrivare prima o poi: la nausea. “La Nausea” è di Sartre o di Camus? Di Sartre non ho mai letto niente, di Camus ho invece letto “Lo straniero”, ero un pischelletto, avrò avuto quindici anni, e mi piacque, pur essendo all’oscuro dell’esistenzialismo e di quelle menate lì, per anni ho descritto il romanzo come la storia di uno che veniva ritenuto da un tribunale un assassino perché non aveva pianto al funerale della madre, poi l’ho riletto ed era un tantino più complicato, però mi sembra più ficcante la mia sinossi adolescenziale. Ficcante… ecco che ricomincio a pensare al sesso… e vabbè dai, famola sta veloce ricerca socio-linguistica sui sinonimi di cumshot…

Di sguardi e memoria

Non so se avete mai visto il film “Il giocattolo” (1979) di Giuliano Montaldo, io l’ho visto di recente, e sono rimasto colpito da una scelta di sceneggiatura che qualche maestrino della materia potrebbe definire addirittura un errore. Il protagonista Vittorio Barletta, interpretato da Nino Manfredi, e sua moglie Ada (Marlène Jobet), invitano a pranzo Sauro (Vittorio Mezzogiorno), un poliziotto che Manfredi ha conosciuto in palestra e con cui condivide la passione per i film western. Durante il pranzo Sauro e Ada si lanciano degli sguardi, sguardi languidi e imbarazzati, e Vittorio se ne accorge, rimanendo per un attimo interdetto. La nostra abitudine filmica ci porterebbe a pensare che quel pranzo preannunci un tradimento (in gergo si parla di metonimia, che oltre ad essere una figura retorica è anche una tecnica narrativa), una liaison, e invece no, quel tango di sguardi non si rivelerà utile nemmeno per tratteggiare aspetti caratteriali dei personaggi, aspetti determinanti per il resto della storia, tipo la gelosia di Vittorio o la debolezza di Sauro verso le donne degli amici. No. In quel pranzo succederà qualcosa che segnerà irrimediabilmente la storia a seguire*, ma quell’embrione di triangolo amoroso ne sarà estraneo e rimarrà confinato per sempre tra il primo e il dessert di quel pranzo. Ecco, un maestrino dicevo, un maestrino definirebbe quella scena inutile e sbagliata; il mondo filmico che abbiamo creato è un mondo estremamente meccanicistico, dove ogni elemento è un ingranaggio atto al movimento della macchina filmica, spesso l’ingranaggio non funziona, è rumoroso, fa vibrare la macchina fino a mandarla in pezzi, ma il solo fatto di essere congruente con il flusso degli eventi ne giustifica la presenza, e raramente vi è spazio per le false piste, o quelle che nei romanzi gialli vengono chiamate “aringhe rosse”, insomma in un film “canonico” ogni sviluppo della trama deve essere anticipato da altri elementi. È qui che a mio parere la scrittura cinematografica perde con la letteratura vera e propria la sfida sul realismo. La vita vera è piena di storie abortite, presunti segni che non segnalavano niente, falsi allarmi, noiosi vicoli ciechi o inaspettati cambiamenti di trama, e un romanzo, anche per l’esigenza di riempire uno “spazio” narrativo più ampio rispetto a un film, spesso non lesina raccontare le digressioni e i ripensamenti del destino. Ciò nonostante, seppur meno realistica, la scrittura filmica è più naturale di quella letteraria, in che senso? Provate a pensare ad un’avventura che avete avuto nella vostra vita. Ora raccontatela. Fatto? Bene, son sicuro che nello stesso periodo vi sarà successa almeno un’altra cosa degna di essere raccontata; prendetevi un po’ di tempo per pensarci, per raccogliere i ricordi, e quando siete pronti raccontate anche questa. Ora confrontate le due storie; se nella prima la vostra preoccupazione principale era il lavoro, nella seconda potreste scoprire che il vostro cruccio era un altro, tipo un problema di salute o una bega sentimentale, se nella prima storia il vostro amico Mario era sempre presente fino a ritagliarsi il ruolo di coprotagonista, nella seconda potrebbe essere meno di una comparsa, e vostra madre apparire come la figura preminente per voi in quel periodo, eppure siete sempre voi, ed è sempre lo stesso periodo. La realtà ci sottopone a un bombardamento di informazioni che non possiamo memorizzare in toto, non nella memoria direttamente consultabile almeno, quella più “vicina” alla coscienza, per questo la nostra mente opera una sintesi, in questa sintesi non vi è spazio per ciò che non è funzionale, ai dettagli apparentemente inutili, nel momento in cui cerchiamo di ricordare qualcosa la nostra mente diventa uno sceneggiatore, e taglia tutto ciò che ritiene superfluo alla storia raccontata. Insomma, se siete in autobus, in aeroporto, al supermercato, e vi scoprite a scambiarvi uno sguardo malizioso e intenso con un perfetto sconosciuto/a, anche se sapete che non rivedrete più quella persona, non cancellate dalla mente quel particolare, quell’immagine, potreste utilizzarla se farete un film, e magari far riflettere qualcuno sull’umana percezione della realtà.

* Una vera e propria “pistola di Cechov”

Fiction-non-fiction

Ieri ero dal mio barbiere, mentre attendevo il mio turno passavo in rassegna le letture sul tavolino, e mi imbatto in un numero (arretrato) de L’Espresso. Superato lo shock per aver trovato il noto settimanale in quella selezione la cui condizione minima necessaria, generalmente, è avere almeno un accenno in prima pagina/copertina alla Roma o alla Lazio, mi sono messo comodo ed ho sfogliato la rivista. Mi ha incuriosito in particolare un articolo che descriveva una nuova tendenza della letteratura internazionale, secondo questo articolo la produzione letteraria (sarebbe il caso però di specificare “non di genere”) starebbe virando massicciamente dalla fiction, ovvero da storie inventate di sana pianta dall’autore, alla non-fiction, ovvero la narrazione del reale, spesso autobiografica (citati gli esempi di Dave Eggers e degli italiani Edoardo Nesi ed Emanuele Trevi). Premetto che non ritengo i due mondi separati, e considero i capisaldi del continuum come puramente teorici. Per quanto riguarda la fiction “se non esistessero i fiori riusciremo a immaginarli?” per dirla à la Bluvertigo, ovvero l’immaginazione è solo un processo di montaggio di ciò che già si conosce, se devo scrivere un romanzo il cui protagonista è impegnato in una guerra che nella realtà non è mai esistita, in quella guerra assemblerò tutti quegli elementi che conosco e che associo alla guerra, la verosimiglianza e la plausibilità dipendono dal grado di solidità di tale costruzione, ma per fare un buon assemblaggio è necessario studiare bene gli elementi, i pezzi, da montare, e su questo torneremo più avanti. La non-fiction, invece, per quanto essa si prefissi di essere neutrale e naturale, ovvero conforme alla realtà che racconta, non potrà mai sfiorare tale condizione, perché il fatto è come la particella per Heisenberg, nel momento in cui la si osserva cambiano i suoi attributi. Uno scrittore per raccontare un fatto realmente accaduto dovrà usare delle parole, quindi sceglierle, dovrà costruire delle frasi e quindi determinare un ritmo nella lettura, insomma lo scrittore non può esimersi dal costruire una regia, e questo attribuisce inevitabilmente un taglio prospettico alla narrazione.

Tornando alla tendenza letteraria di cui all’articolo de L’Espresso, ho il sentore che essa non sia soltanto un’evoluzione del gusto di lettori, editori e autori, ma entri in gioco una variabile esterna che ha cambiato e cambia tutti gli aspetti della nostra vita: la crisi economica. È pacifico che più passa il tempo e sempre meno sono gli scrittori che possono vantare di sostentarsi con i propri libri, se dipendo da un altro lavoro per pagare l’affitto non sarò così libero di osservare e studiare i pezzi da montare insieme, se faccio l’impiegato o l’operaio potrebbe essere un problema per me, ad esempio, affrontare un viaggio di mille chilometri per incontrare un vecchietto che mi è stato segnalato e che ha fatto la seconda guerra mondiale, nel caso nel mio romanzo volessi “costruire” una guerra come nell’esempio fatto prima, così attingo a del materiale che già conosco bene, quello del mio vissuto personale, o a del materiale semi-lavorato come nel caso della cronaca. Con questo non voglio dire che scrivere non-fiction sia più semplice, anzi, forse sarei tentato di affermare il contrario, ma la lavorazione che implica è forse più economica soprattutto in termini di tempo. Questo per quanto riguarda gli scrittori, ma l’offerta è nulla se non incontra la domanda, quindi cosa spinge i lettori a comprare non-fiction? È risaputo che quando interviene una grossa crisi aumenta la richiesta di evasione, di intrattenimento, ma questo è vero nel breve periodo, non è eretico pensare che quando la crisi è consolidata riprenda il bisogno di realtà del pubblico, considerando poi che il libro, sia esso di carta o digitale, può costituire talvolta un lusso, un titolo ben scritto di non-fiction può soddisfare contemporaneamente il gusto per la lettura e quel bisogno di realtà, di informazione e dare l’impressione di capire, e quindi vivere, il proprio tempo.

Poi è arrivato il mio turno; ho chiuso la rivista, archiviato le mie considerazioni e ho preso a discernere anche io di Zeman e Petkovic.

Culo Nudo

Con questo post voglio invitarvi a guardare questo reportage della rivista Vice, sulla Liberia, Stato africano che ricorda un passato recente che definire drammatico sarebbe un eufemismo. In questo viaggio Shane Smith incontra vari testimoni e protagonisti della guerra civile in Liberia, e tra questi ve ne è uno che all’epoca veniva chiamato Butt Naked, ovvero culo nudo, non fatevi intenerire dal nomignolo, Butt Naked ha fatto cose che solo compendiando i vostri incubi peggiori potreste immaginare, come aprire la pancia a un bambino ancora vivo e berne prima il sangue e poi mangiarne la carne. Fatto un’idea? bene, guardate ora Butt Naked, guardatelo nel reportage, guardatelo sorridere, guardatelo parlare orgoglioso della missione che sta costruendo, guardatelo raccontare commosso di come ha recuperato diversi ex bambini soldato, guardatelo vestito da pastore a portare la buona novella cantando e ballando, ma guardatelo soprattutto quando ammette il suo passato, quando ammette di aver commesso crimini indicibili e di attendere sereno la sua punizione. Noi siamo le stesse persone di venti, trentanni fa? Siamo responsabili di quello che un’altra persona con il nostro stesso nome ha fatto in passato? un uomo che ha perso la memoria può essere considerato colpevole di un reato che non ricorda? è un tema che mi ha sempre interessato, un dilemma a cui non so dare una risposta e che costituisce la sottotraccia di un romanzo breve che ho pubblicato a puntate su questo blog  un paio di anni fa (qui, per andare avanti cliccare “continua” alla fine di ogni capitolo). Con questo non voglio dire che Joshua Blahyi, altrimenti noto come Butt Naked, non debba essere processato dal tribunale dell’Aia per i crimini di guerra (l’eventualità è tuttora in discussione), un processo va sempre celebrato, anche quando i protagonisti non ci sono più, perché un processo non serve solo a decretare pene, ma anche a restituire a una comunità ciò che la rende libera, ovvero la verità (Veritas Vos Liberat, Giovanni 8:32, passo che lo stesso Butt Naked cita in una sua predica). E non voglio neanche sostenere che Butt Naked sia davvero pentito, che non sia capace di fare in futuro ciò che ha già fatto in passato. Lo stesso Shane Smith si chiedeva se il demone fosse semplicemente in letargo, in attesa di tempi migliori per svegliarsi, come il ritiro dalla Liberia delle truppe dell’Onu, così Vice è tornata a intervistare Butt Naked a due anni dal ritiro Onu (e tre dal reportage), ma nessun colpo di scena; continua a fare il predicatore, anche se alcuni sostengono sarebbe dietro a un nascente gruppo pronto a sovvertire con le armi il governo.

La mia (breve) obiezione di coscienza

Siete in un supermercato, avete comprato le vostre cose, vi apprestate a pagare, davanti a voi due casse; una è una cassa automatica, l’altra è gestita da una commessa. Quale scegliete? Supponendo che non abbiate difficoltà con la cassa automatica probabilmente sceglierete quella con meno fila. Stesso discorso al casello dell’autostrada. Ma è solo questa la valutazione che fate? Un calcolo costo/tempo? Anzi no, ho sbagliato a porre la domanda: è giusto fare solo questa valutazione?

In Italia il tema dell’obiezione di coscienza nella sanità è da decenni al centro di dibattiti, in nessun altro ambito un lavoratore è contrattualmente tutelato qualora si rifiuti di adempiere a una delle mansioni previste dal suo ruolo, tale tutela è giustificata dalla sacralità (e dalla soggettività) del concetto di vita. Bene, con la presente mi impegno ad ottemperare ad un’altra forma di obiezione che qualcuno potrà ritenere futile o irrispettosa se paragonata ai temi della bioetica, eppure l’oggetto della mia obiezione riguarda comunque la dignità della vita: riguarda il lavoro, nello specifico l’automazione del lavoro. Chi mi conosce personalmente sa quanto io sia fissato con le nuove tecnologie, e ci tengo a precisare che non ritengo che l’automazione del lavoro sia di per sé un male; in una società giusta con un’equa distribuzione della ricchezza, dove ognuno riceve ciò di cui ha bisogno, i benefici dell’automazione ricadono sulla comunità tutta, in termini di minori carichi di lavoro e maggiori utili, ma in un sistema capitalistico malato come quello in cui viviamo, l’automazione riduce l’offerta di lavoro (umano) mentre rimane invariata la domanda, ciò comporta che il punto in cui si incontrano le due curve è sempre più a favore di chi offre, in termini di salari e condizioni di lavoro, in pratica a scapito della dignità della classe lavoratrice. Ripeto, non sono un amish, auspico che lo sviluppo tecnologico porti il lavoro umano ad essere sempre più sicuro, meno duro e perché no anche più “produttivo”, come è successo nelle fabbriche e nei campi dalle rivoluzioni industriali ad oggi, ma per l’ammirazione e il rispetto che nutro verso lo sviluppo tecnologico e verso gli uomini e le donne che lo hanno reso possibile, da consumatore non posso permettere che esso diventi uno strumento, seppur indiretto, per lo sfruttamento del lavoro.

Certo, la progettazione di un programma di boicottaggio in tal senso è assai difficile: si pensi a quei servizi che sono resi possibili proprio da un alto, se non totale, tasso di automazione, come quelli informatici, si pensi al sacrificio opposto, quello dei manutentori e delle aziende che producono automazione (per forza di cose, si deve però notare, numericamente inferiori ai lavoratori soppiantati), si pensi al “ricatto” economico come quello dei distributori di carburanti in cui il costo del self service è assai più basso del “servito” (sistema simile, poi abbandonato, è stato per un periodo anche adottato dagli operatori telefonici: facevano pagare un costo aggiuntivo per delle operazione che potevano essere fatte anche attraverso centralino automatizzato o sito, se queste venivano richieste a un operatore di call center) . Ma soprattutto il confine tra miglioramento delle condizioni di lavoro e riduzione di esso, attraverso la tecnologia, è spesso invisibile per i consumatori e per i lavoratori stessi, come difficile è per questi soggetti stabilire se l’automazione è utile a mantenere in vita un’attività, e quindi anche il lavoro, o lo è solo per aumentare il profitto dei padroni. Quindi la mia obiezione si risolve in un’acquosa speculazione (come quasi tutti i miei buoni propositi), utile solo per aggiornare il blog, ma voi… voi pensateci comunque, la prossima volta che siete al supermercato e avete due casse davanti, pensateci comunque…

Il mio senso per la prospettiva

Oggi è probabilmente il giorno più caldo dell’anno, e dove mi trovo non ci sono condizionatori o deumidificatori, quindi mi si perdonerà l’elucubrazione. Ho un ricordo ben chiaro di un evento della mia infanzia, o meglio ricordo perfettamente la sensazione che provai; da bambino disegnavo molto, una volta mi cimentai nel disegno della casa, e la disegnai come fanno molti bambini, ovvero un rettangolo sormontato da un trapezio a simboleggiare il tetto, eppure percepivo che il disegno non funzionava, che non era sovrapponibile al progetto che avevo nella mia testa, ma non capivo dove sbagliavo, e ciò mi procurava profondo disagio e frustrazione, così presi la scatola delle brioche e confrontai il mio foglio con il logo del Mulino Bianco, ma ancora non riuscivo a capire, poi un adulto, non ricordo chi, mi disse che nel mio disegno non c’era prospettiva, e così fece il suo schizzo in pochi secondi, lo stesso numero di linee utilizzate, ma inclinate in maniera diversa. Ne fui sconvolto. Prospettiva, per me divenne una sorta di formula magica grazie alla quale degli angoli “sbagliati”, ovvero non retti, davano nell’insieme l’idea realistica di un dado o di una scatola. Fu un’epifania, e nonostante la mia lezione di prospettica fu tutta in quella parola e in quel breve esempio, cominciai a sperimentare varie angolazioni senza saperne nulla di punti di fuga e quant’altro, e ogni volta il risultato mi dava un brivido di piacere, un misto di esaltazione (per il risultato ottenuto) e ansia (per tutti i risultati ottenibili). Ora portiamo l’esperienza su un altro piano, prendiamo l’ascensore che porta dal semiinterrato della formazione cognitiva del singolo all’attico della coscienza collettiva. Le sovrastrutture culturali, gli obblighi e i doveri associati al nostro ruolo nella società, ci portano a osservare e percepire la realtà da un unico punto di vista, i nostri muscoli cognitivi si atrofizzano e disimpariamo a percepire la realtà da prospettive differenti, ciò ci provoca frustrazione, come il bambino che non riesce a disegnare la casa come vorrebbe, da questo nasce l’esigenza, vecchia quanto l’uomo, della ricerca degli stati alterati di coscienza, ovvero il tentativo di forzare, traslare, la nostra prospettiva sul mondo. Ecco, in questo vi è il mio senso della letteratura (e più in generale dell’arte), quello che in gergo viene definito effetto straniamento; ritengo che una delle funzioni più utili della letteratura (nel senso più esteso possibile) sia quella di suggerire, catalizzare, o rifilare con l’inganno, una prospettiva non comune, il disegno di una casa che per quanto sia bello o brutto, preciso o impreciso, ci ricordi che esistono infiniti punti di vista. O in altre parole, la letteratura che mi interessa è quella che ha lo stesso effetto destabilizzante delle cosiddette droghe, magari, qualora sia possibile, senza quelle noiose controindicazioni, tipo i deficit della memoria e l’arresto…

Una proposta senza pretese

Egregie Ministre Anna Maria Cancellieri e Paola Severino, Egregio Ministro Corrado Passera

Prima di esporre la mia modesta proposta vi chiedo di visionare questo video da un’inchiesta del Corriere della Sera, qualora non aveste tempo ve lo riassumo io; un ex agente penitenziario, alla sbarra per una serie di reati effettuati con la divisa, ammette davanti alla telecamera come nell’istituto penitenziario in cui prestava servizio, era comune picchiare, spesso senza motivo alcuno, i detenuti, non qualsiasi ospite carcerario però, solo quelli non affiliati a organizzazioni malavitose, a quest’ultimi invece si riservavano tutti i riguardi. In realtà avrei potuto scegliere altri reportage o citare dossier più completi o atti giudiziari, ma ho scelto questa confessione perché mette l’accento su un aspetto che in questo contesto ho intenzione di sottolineare, e che personalmente, scusate l’informalità dell’espressione, mi fa incazzare come una bestia: la questione della videosorveglianza. Come saprete tutte le nostre carceri e tutte le nostre caserme e commissariati sono attrezzati con dispositivi di videosorveglianza, eppure l’autorità giudiziaria in molti spiacevoli casi di cronaca che si sono svolti nei suddetti luoghi, non ha trovato in questo strumento tecnologico alcun aiuto, nonostante l’evidenza di altre prove e l’esito dello stesso iter processuale, la ragione è amaramente prevedibile e ce ne dà conferma l’ex agente del filmato: il controllo è affidato al controllato, il personale che potenzialmente può trasgredire la legge, oltre che le più basilari norme morali, può facilmente occultare le prove documentali, o impedire che queste vengano create (ad esempio spegnendo il sistema o privandolo del supporto di memorizzazione). Prima di andare avanti ci tengo a dire che il buon funzionamento del sistema di videosorveglianza è anche a tutela del personale di pubblica sicurezza; non credo e non voglio credere, come invece fa intendere il succitato ex agente, che la sospensione dei diritti umani sia la norma nei luoghi dove lo Stato si assume momentaneamente la custodia di alcuni suoi membri, che scampoli di macelleria messicana si svolgono giornalmente nelle nostre città, nei nostri quartieri.

Ministro Passera, lei si appresta a varare una serie di riforme nel nostro Paese per modernizzarlo e ridurne il gap tecnologico rispetto ad altri Paesi, alla luce di quanto da me esposto, e che trova in altre ben più autorevoli voci un’analisi più complessa e puntuale, non sarebbe forse il caso di pensare a una regia nazionale, magari ministeriale (e qui mi rivolgo a Voi, Ministre Severino e Cancellieri), dei filmati di sicurezza di carceri e caserme? Ciò sarebbe facilmente realizzabile qualora la banda larga diventasse una realtà nel nostro paese, obbiettivo al centro dell’agenda digitale del governo, ma anche senza di essa sarebbe possibile, attualmente, inviare all’ipotetico centro di archiviazione centrale quantomeno un montaggio automatico (pochi secondi stabiliti per ogni videocamera a successione randomica) in bassa qualità. La registrazione remota prevista da questo sistema non impedirebbe comunque la registrazione locale. Certo non è un metodo infallibile, ma sicuramente è un grosso passo avanti rispetto all’autogestione attuale che rende sostanzialmente inutili i dispositivi di videosorveglianza, se non quando il contenuto video documenta il corretto operato del personale di pubblica sicurezza. “L’Italia riparta da Internet e dalla tecnologia” è uno degli slogan dell’attuale ministero dello Sviluppo Economico, centralizzare la videosorveglianza penitenziaria potrebbe costituire un’opportunità per diverse aziende che operano nel settore dell’information technology, ma personalmente ritengo che non è tanto alla ricchezza economica che un sistema del genere potrebbe dare una mano…

Cordiali saluti.

(Re-bloggate o condividete se vi pare e se lo ritenete opportuno)

Pensateci prima

Rancho Palos Verdes, CA

Qualche giorno fa, con degli amici, ci siamo trovati alle due di notte a leggere epitaffi famosi su internet. Vi giuro che tutto è partito da una discussione normale, da gente grossomodo sana di mente; se non ve ne siete mai occupati non potrete credere alle epigrafi non convenzionali che ogni tanto si possono leggere… se l’ironia da sempre è giudicata sintomo di intelligenza, l’autoironia di grande intelligenza, l’ironia post-mortem (o più propriamente il gallows humor) è segno di immensa devozione verso l’ironia e quindi per l’intelligenza umana, se non per la battuta in sé quantomeno per la scelta del tempo comico definitivo. Se non avete mai pensato alla vostra epigrafe tombale perché la cosa vi fa tristezza, oppure perché non farete in tempo a scriverne una in quanto avrete altre cose da fare, tipo morire, potete scegliere un epitaffio già pronto che trovate di seguito, ovviamente non chiedo niente in cambio, giusto la vostra anima…

“Non piangete per me, ho finalmente la scusa perfetta per non fare un cazzo” (per pigri cronici).

“Mai stato così comodo, ci passerei l’eternità” (per pubblicitari e televenditori).

“Sono momentaneamente non vivo, ma farò ricorso” (per avvocati rampanti).

“Ho solo delocalizzato la mia produzione di vita” (per manager senza scrupoli).

 “Scusate se non mi alzo” (per i maniaci delle buone maniere).

“Polvere eravamo e polvere torneremo… e neanche una banconota da arrotolare” (per cocainomani pessimisti).

“Vi ho battuti sul tempo” (per i malati della competizione).

“</life>” (per programmatori e patiti di informatica).

“Nacque, visse e si biodegradò” (per ambientalisti convinti).

“A quanto danno la reincarnazione?” (per scommettitori incalliti).

“Che cazzo leggi?” (per sociopatici e attaccabrighe).

“Almeno questa frase l’ho pubblicata” (per eterni aspiranti scrittori).

Puffetta non è una troia (saggio breve)

 Dato che il post pubblicato poche ore fa non era sufficientemente serio e profondo, decido di scrivere un veloce commento su di un argomento di primaria importanza e su cui si sono misurate le menti più illustri del nostro tempo: i puffi. I revival mi fanno tristezza, compresi quelli dei cartoni. A una seienne che chiede a me se ho visto il film dei puffi vorrei rispondere che io li guardavo quando i genitali dei suoi genitori erano ancora degli inutili orpelli privi di utilità alcuna come privo di senso era la loro divergenza morfologica, ma per affermare questo non contravvenendo all’onestà intellettuale il padre e la madre dell’ipotetica bambina dovrebbero essere decisamente giovani, e poi una pivella di prima elementare difficilmente apprezzerebbe cotanto slancio retorico. Ad ogni modo una cosa che non sopporto dei puffi è quando si dice che Puffetta è una troia, semplicemente perché è l’unico puffo di sesso femminile, considerazione pericolosamente e odiosamente sessista, oltre che priva di ogni fondamento. La versione ufficiale vorrebbe Puffetta come una creazione di Gargamella, ma si tratta evidentemente di una toppa di censura; il motivo per cui Gargamella dà la caccia ai puffi è perché costituirebbero l’ingrediente principale per la pietra filosofale, almeno nel fumetto, mentre nel cartone Gargamella si limita a mangiarli; ma se Gargamella può creare in provetta i suoi puffi, perché dannarsi l’anima per catturare quelli selvatici? Ma dai, parliamoci seriamente; tutti i puffi sono maschi eccetto Puffetta, è evidente che anche Puffetta è nata puffo, e Puffetta lo è diventata solo in seguito a una lunga, sofferta e sacrosanta storia di emancipazione, Puffetta è il puffo Transessuale, e nella comunità blu non viene discriminata o emarginata per questo, no, al contrario la sua diversità la rende a pieno titolo membro della società del fungo, infatti ogni puffo ha una personalità unica che si reverbera nel nome, la diversità li rende tutti uguali. In quel film di Tarantino il cui titolo è un’esortazione al suo omicidio, Bill sostiene che Clark Kent è la critica di Superman al genere umano, analogamente Puffetta è la lezione che Grande Puffo dà all’uomo moderno sull’identità di genere.

Bibliografia essenziale:

Donnie Darko

Cavie

ex-Carcere di Procida ... in lontananza Capo Miseno e i Campi Flegrei - Porfirio in licenza CCCe l’ho il biglietto ce l’ho! Ce l’ho il biglietto ce l’ho ce l’ho! – Urlando queste parole mi si parò davanti un vecchio ragazzo, mi agitava sotto al naso il rettangolo di carta che la cassiera del cinema gli aveva consegnato. Il suo tono era pregno di paura. Poi una (bella) ragazza lo allontanò gentilmente da me e mi chiese scusa. E di cosa risposi io. Dopo capì che quella ragazza, e un’altra che vidi solo in sala, dovevano essere delle psicologhe tirocinanti o qualcosa del genere, e avevano portato gli ospiti di una casa famiglia al cinema. Mi divertii a guardarle; le severe reprimende che inscenavano verso gli ospiti più scalmanati non le appartenevano, non ancora almeno, vestivano l’autorità come una divisa di tre taglie più grandi, il loro era più che altro una reazione all’imbarazzo, l’imbarazzo per gli improbabili commenti ad alta voce che il vecchio ragazzo proponeva durante le scene di sesso. Ma tornando al biglietto, quella fu la prima volta, anche se solo per una frazione di secondo, che mi sentii come… come immagino si senta una guardia, se si esclude il breve periodo in cui sono stato un assistente universitario, ma allora era diverso, la prepotenza istituzionale che ero chiamato a rappresentare era fatta di giudizio, un giudizio una tantum, e così gli studenti, spesso miei coetanei, mi guardavano in modo ambiguo, sorrisi tirati e falsi, ma dopo i miei voti sempre troppo alti, anzi più precisamente dopo la verbalizzazione da parte della professoressa del voto che avevo deciso io, quella tensione vaporizzava, i lei si trasformavano magicamente in tu, e io tornavo ad essere ai loro occhi un pischelletto con cui magari avrebbero scambiato due chiacchiere nei corridoi della facoltà, o magari no, non più un potenziale stronzo che avrebbe potuto rovinargli la giornata, o un sadico capace di fargli saltare la sessione di laurea. Un segno convenzionale a penna su un foglietto di carta stabiliva le regole del gioco di ruolo, un pezzo di carta, come il biglietto del cinema. Il contesto sociale determina la percezione della realtà sociale, suggerisce la visione di un ordine naturale anche quando quell’ordine naturale non esiste, quando è un compromesso, un’illusione. Un esempio che mi pare appartenga a Bunuel: una donna entra in ascensore, nella cabina c’è anche un uomo, l’uomo chiede alla donna di togliersi le mutande, la donna risponde con uno schiaffo, l’ascensore si ferma, l’uomo e la donna entrano nella stesso appartamento, è uno studio medico, l’uomo è un ginecologo, la donna una paziente, l’uomo ripete la richiesta e la donna esegue senza trovarci nulla di strano. Gli attori sono gli stessi, anche la richiesta è la stessa, ma cambia il contesto, e quindi anche il senso sociale, le regole. Nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo realizzò un esperimento che sfuggì drammaticamente di mano a lui e a si suoi collaboratori e che diventò un caso emblematico nelle scienze sociali, si tratta dell’esperimento carcerario di Standford; nel seminterrato della facoltà di psicologia dell’università di Stanford venne ricreato un carcere, gli studenti volontari che accettarono di prendere parte all’esperimento vennero assegnati casualmente al ruolo di guardia o di detenuto, dopo alcuni giorni si crearono delle dinamiche perverse, per capirci immaginate un crudo prison movie o i resoconti della caserma di Bolzaneto nel 2001. Una parte degli studenti/guardie cominciò scientificamente a minare la dignità degli studenti/detenuti, e cercò di spezzare la solidarietà che si stava creando tra i membri del gruppo in difficoltà. L’esperimento fu sospeso e furono registrati gravi casi di depressione tra i partecipanti. Il fatto che fosse un esperimento, e che i volontari chiusi dietro le sbarre non avessero commesso nessun crimine e che recitassero quel ruolo, piuttosto di quello di guardia, solo per puro caso, non inibì la comparsa di comportamenti che gli stessi protagonisti consideravano intollerabili in altri contesti. L’abito non fa il monaco dice un vecchio adagio, ma evidentemente può fare l’aguzzino. Se vogliamo quello di Zimbardo è un metaesperimento, un esperimento su un esperimento, perché la detenzione è la più grande forma di esperimento involontario della storia umana: avete presente i test sugli animali? Per stabilire la dose letale di un particolare farmaco la cavia viene bombardata da dosi massicce di principio attivo, analogamente il detenuto è sottoposto a una somministrazione massiva di obblighi, divieti e privazione della libertà, elementi comunque presenti, ma in quantità nettamente inferiori, nella vita dei cosiddetti cittadini liberi. Dalle situazioni carcerarie i governi traggono involontariamente (?) informazioni su quanto, e come, possa essere oppressa la società che amministrano, qual è il punto di non ritorno oltre il quale le regole del gioco di ruolo non valgono più.

Comunque alla fine il film non era un granché.

Sotto il segno del granchio di fiume

Come in quell’antico proverbio cinese, l’altro giorno mi sono seduto sulla riva del fiume e ho atteso il cadavere del mio nemico, ovviamente non è successo niente, anche perché il mio antagonista sarebbe dovuto essere uno gnomo, in quanto quello che avevo davanti non era davvero un fiume ma un rigagnolo, la diramazione di un torrente che un tempo affluiva nel Tevere. Cercavo con lo sguardo i pesci, guardarli mi tranquillizza, e immagino conviene essere rilassati prima di vedere il cadavere putrefatto di uno gnomo, ma non se n’è visto manco uno, né di pesce né di gnom0, però ho osservato a lungo un granchio; infilava le chele nel fango, probabilmente nella melma apriva e chiudeva velocemente le tenaglie fino a quando qualcosa non inceppava il meccanismo, allora tirava su l’arto dal fango e portava alla bocca, o in qualsiasi altro modo si chiami l’incipit del tratto digestivo di un granchio, quel qualcosa che era rimasto intrappolato nella chela. A volte non trovava niente, allora faceva due passi in diagonale e si tuffava in due nuovi carotaggi. Questa scena mi ha fatto pensare a un concetto filosofico che probabilmente molti lettori reputeranno troppo ostico ed elitario, il cui gergo suonerà ai più eccessivamente aulico: la merda. Perché cos’è un granchio di fiume se non una creatura geneticamente programmata a frugare nella merda? Avete storto la bocca o avete provato pena per il Potamon fluviatile? È evidente che il vostro gusto, la vostra sensibilità o il vostro pudore, sono innaturali, perché contrari alla logica che governa la natura; gli animali coprofagi (di cui non fa parte il granchio) non sono un’aberrazione della natura, ma un anello fondamentale della catena alimentare, e anche le farfalle, ebbene sì, anche alcune eleganti farfalle sono ghiotte di cacca. Gli escrementi sono il tasso di interesse che il regno animale paga alla terra per le sostanze nutritive che da essa prende in prestito, pensate che fico sarebbe portare mensilmente in banca un secchio di feci in cambio della rata del mutuo, merda al posto del mattone, che poi è quello che succede in alcune zone dell’Africa in cui gli escrementi di vacca vengono impastati con la paglia secca per costruire capanne. A livello esistenziale la merda è l’unica certezza della vita insieme alla morte. L’impatto psicologico degli escrementi, e dei traumi che ad essi sono associati, non sono di certo una novità per la psicologia post-freudiana, basti pensare all’importanza che il padre della psicoanalisi aveva attribuito alla fase anale nella formazione dell’io. Esistono testimonianze etnografiche di popolazioni in cui urinare in pubblico era considerato normale, ma non mi risulta (ma potrei sbagliarmi) di realtà culturali che non contemplassero il pudore nell’espletazione dei bisogni corporali solidi, e ciò renderebbe la defecazione il solo tabù universale insieme all’incesto. Alla merda è legato anche il progresso tecnologico; si pensi al contributo che ha dato alla nascita dell’ingegneria idraulica la necessità di allontanare dagli stanziamenti umani i liquami fognari, e si pensi oggi alla possibilità di trarre energia elettrica da essi. Il caffè più costoso al mondo è il Kopi Luwak (o altre miscele che lo contengono), che prevede l’uso dei chicchi di caffè digeriti (e quindi defecati) dal Paradoxurus hermaphroditus, altrimenti noto come zibetto della palme. Ma alla prova dei fatti la cacca cos’è? È il prodotto di una funzione fisiologica, nello specifico dell’apparato digerente; la merda sta all’intestino come le idee stanno al cervello (a volte qualcuno partorisce “idee di merda” ma a fini esplicativi riterremo la cosa un’eccezione), e se è vero che sotto le nostre città ci sono mari di cacca e se, con buona pace di Leibniz, questo è un mondo di merda, è vero anche che da qualche parte esistono mari di idee e un mondo di idee. È così che il cesso di casa dimostra in maniera lampante l’esistenza dell’Iperuranio.